Lotta al caporalato: quali risultati?
Se si è acceso un faro nella lotta al caporalato, lo dobbiamo senza dubbio alla legge n.199/16. Questa affermazione è condivisa da molte realtà del mondo del lavoro, agricolo e non. A questo punto, è opportuno, quindi, chiedersi quali risultati abbia raggiunto la norma a cinque anni dalla sua approvazione.
Nel seguente articolo affrontiamo il tema della lotta al caporalato in Italia con i dati che l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha messo a disposizione nei suoi ultimi rapporti relativi alle attività di ispezione territoriali, per avere maggiore chiarezza su cosa ha illuminato il faro dell’anti-caporalato e cosa invece è rimasto ancora nella penombra in questi anni.
Incominciamo dalla luce. Dall’entrata in vigore della legge anti-caporalato, l’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale portata avanti dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha individuato circa 7.000 lavoratori vittime di sfruttamento individuale che sono stati occupati nei macro-settori produttivi dall’agricoltura, dell’industria, del terziario e dell’edilizia.
Questo dato, ricavato dai Rapporti annuali sull’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale, è importante per la lotta al caporalato, in virtù del fatto che prima dell’entrata in vigore della legge 199, non c’era un numero basato sulle attività ispettive che raffigurasse chiaramente il fenomeno e, quindi, la lotta al caporalato non aveva dei benchmark di riferimento sull’efficacia delle attività di contrasto messe in campo.
D’altro canto, i 7.000 lavoratori liberati dal caporale sono il risultato cumulato di cinque anni di attività e se consideriamo che annualmente sono stimati in 400.000 i lavoratori sfruttati in Italia, emerge chiaro che occorre fare di più e che la sola attività di repressione non può essere risolutiva del problema dello sfruttamento del lavoro.
In particolare, andando verticali sulla filiera agroalimentare, il Rapporto dell’INL evidenzia come lo sfruttamento dei lavoratori agricoli crei pesanti squilibri sociali sulle comunità che vivono nel nostro Paese privandole di diritti e tutele conquistate in anni di lotte sindacali per la dignità e la sicurezza dei lavoratori.
Basti pensare che un “abile” caporale riesce a mettere in forte concorrenza la forza lavoro e a imporre così dei salari giornalieri inferiori del 50% rispetto a quello previsto dai contratti nazionali. A tal proposito, sono molteplici le testimonianze di sfruttamento rese fra la forza lavoro stagionale impiegata sistematicamente nei periodi di raccolta sui campi e intercettata dalle attività di vigilanza dell’INL. Ci sono casi di braccianti sfruttati che per più di 12 ore lavorative ricevono una paga giornaliera di circa 25/30 euro, a cui vengono sottratti i servizi accessori-obbligatori da pagare al caporale, come il costo del trasporto, l’alloggio o il pasto giornaliero.
In questo contesto, la legge 199/16 ha portato quindi sicuramente più luce sulla questione, ma a cinque anni dalla sua entrata in vigore è parere condiviso che serva maggior impegno per estirpare alla radice la gramigna del caporalato.
Dal lato dei lavoratori agricoli, i controlli effettuati in agricoltura sono il frutto prevalente di attività di intelligence basate su analisi territoriali, mentre la quantità di segnalazioni o denunce arrivate direttamente dai lavoratori sfruttati sono un numero modesto ancora poco chiaro. Quest’ultimo è però un dato necessario per mettere in campo soluzioni preventive e misurarne l’impatto.
A tal riguardo, considerando che circa l’80% dei lavoratori sfruttati sono di origine straniera, risulta necessario garantire loro una maggiore conoscenza dei diritti e dei servizi, pubblici e privati, attivabili per la propria tutela con una progettualità preventiva in grado di far uscire dalla condizione di marginalità ed invisibilità sociale a cui molti lavoratori agricoli stagionali sono rilegati e sui quali attecchisce maggiormente l’attività del caporale.
A ciò si aggiunge un punto debole della legge, ovvero l’assenza di strumenti di tutela efficaci per coloro che sono disposti a denunciare i propri sfruttatori, prevedendo, in particolare, la presa in carico da parte delle istituzioni e il reinserimento lavorativo.
È necessario poi prendere atto che questa battaglia si vince solo facendo squadra con le imprese sane di questo paese, le quali sono anch’esse vittime dell’attività illecita del caporale subendo una concorrenza sleale che si ripercuote sul prezzo finale dei prodotti venduti. Sotto questo profilo, si riscontra la non piena applicazione dell’articolo 8, relativamente alla possibilità di iscrizioni delle imprese alla Rete del lavoro agricolo di qualità.
Infatti, come si apprende dall’ultima indagine parlamentare sul fenomeno del caporalato in agricoltura, l’INPS, limitando la propria analisi ai primi tre anni di applicazione della legge, ha comunicato che le adesioni alla Rete del lavoro agricolo di qualità sono state assolutamente inferiori alle aspettative: «A tre anni dalla legge anti-caporalato le aziende iscritte sono circa 3.600, rispetto a un potenziale di 120.000 aziende con dipendenti e di 200.000 coltivatori».
In controtendenza c’è però il caso dell’Emilia-Romagna dove il numero di aderenti alla Rete è elevato. Qui l’adesione di imprese agricole che si distinguono per il rispetto della normativa in materia di lavoro e legislazione sociale e in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto è stata incentivata da specifiche misure di premialità nell’ambito dei PSR.
Concludendo, la zona d’ombra su cui il faro dell’anti-caporalato dovrà fare maggiore luce è quella del coinvolgimento degli imprenditori nella lotta al caporalato. Una filiera etica i cui prodotti sono garantiti nel gusto e nella dignità del lavoro potrebbe essere la soluzione vincente per avvicinare le imprese e rafforzare la loro sostenibilità sociale. Al contempo è però anche necessario garantire sbocchi commerciali dedicati al nuovo marchio etico, per stringere alleanze di lungo periodo con il consumatore-consapevole, vero artefice del cambiamento.